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Umberto Eco sulle biblioteche pubbliche

  16 marzo 2020 Banner biblioteca pubblica

Libri antichi su scaffaleIl 10 marzo, nella sala del Grechetto, alla presenza del Sindaco Carlo Tognoli e dell’Assessore alla Cultura Guido Aghina, si celebravano i 25 anni di attività della Biblioteca Comunale di Milano nell’attuale sede di Palazzo Sormani.
Al fianco di esponenti della cultura cittadina, un pubblico di amici; quegli amici che la Biblioteca ha saputo conquistarsi durante la sua breve storia; una storia anche di generazioni, di quelle che si sono succedute, nelle sale delI’Istituto, per fruire dell’organizzazione e disponibilità della Biblioteca Comunale di Milano.
A tutti si rivolgeva Umberto Eco, anche lui amico delle biblioteche, di questa biblioteca.
Ora, grazie alla sua cortesia, viene qui presentato il testo di quell’intervento. Se quest’anno i bibliotecari possono esser stati gratificati dall’evviva loro riservato da Giuseppe Prezzolini, le biblioteche hanno trovato in Umberto Eco – del quale va ricordata la vacanza condotta negli spazi della creazione narrativa – un definitore di funzioni: espresse felicemente anche con rapidi ed acuti sguardi nel futuribile.
Un incontro tra generazioni, tra esponenti della cultura che testimoniano la loro riconoscenza verso il mondo delle Biblioteche: testimonianze accolte con gratitudine e poste a programma, senza cedere alla tentazione di facili trionfalismi.

 

Dicembre 1981
Pietro Florio
Direttore della Biblioteca Comunale di Milano

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Io credo che in un luogo così venerando sia opportuno cominciare, come in una cerimonia religiosa, con la lettura del Libro, non a scopo di informazione, perché quando si legge un libro sacro tutti sanno già quello che il libro dice, ma con funzioni litaniali e di buona disposizione dello spirito. Dunque:

 

«L’universo (che altri chiama la biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella di una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l’altro, di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. […] A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, però, che indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa. […] Cinquecento anni fa, il capo d’un esagono superiore trovò un libro tanto confuso come gli altri, ma in cui v’erano quasi due pagine di scrittura omogenea, verosimilmente leggibile. Mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante e questo gli disse che erano scritte in portoghese; altri gli dissero che erano scritte in yiddish. Poté infine stabilirsi, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, che si trattava di un dialetto samoiedo-lituano del guaranì, con inflessioni di arabo classico. Si decifrò anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca. […] Affermano gli empi che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) vi è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della “Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio”. Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque, simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. [ … ] Parlare è incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa già esiste in uno dei trenta volumi dei cinque scaffali di uno degli innumerabili esagoni – e così pure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali, ma biblioteca sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno le sette parole che la definiscono. Tu, che mi leggi, sei sicuro di intendere la mia lingua?)» Amen!

 

Il brano, come tutti sanno, è di Jorge Luis Borges, un capitolo di La Biblioteca di Babele, e mi chiedo se tanti tra i frequentatori di biblioteca, direttori di biblioteca, lavoratori di biblioteca qui presenti, nel riudire e rimeditare queste pagine, non abbiano vissuto esperienze personali, di gioventù o di maturità, di lunghi corridoi, lunghe sale; cioè c’è da chiedersi se la biblioteca di Babele, fatta a immagine e modello dell’Universo, non sia anche a immagine e modello di molte biblioteche possibili. E mi chiedo se sia possibile parlare del presente o del futuro delle biblioteche esistenti elaborando dei puri modelli fantastici. Io credo di sì. Per esempio, un esercizio che ho fatto varie volte per spiegare come funziona un codice, riguardava un codice molto elementare a quattro posti con una classificazione di libri in cui il primo posto indica la sala, il secondo posto indica la parete, il terzo posto indica lo scaffale sulla parete e il quarto posto indica la posizione del libro nello scaffale, per cui una segnatura come 3-4-8-6 significa: terza sala entrando, quarta parete a sinistra, ottavo scaffale, sesto posto. Poi mi sono accorto che anche con un codice così elementare (non è il Dewey) si possono fare giochi interessanti. Si può scrivere per esempio 3335.33335.33335. 33335. ed ecco che abbiamo l’immagine di una biblioteca con un numero immenso di stanze: ciascuna stanza ha forma poligonale, più o meno come gli occhi di un’ape, in cui possono esserci quindi 3.000 o 33.000 pareti, tra l’altro non rette dalla forza di gravità, in quanto gli scaffali possono stare anche sulle pareti superiori, e queste pareti, che sono più di 33.000, sono enormi perché possono ospitare 33.000 scaffali e questi scaffali sono lunghissimi perché possono ospitare ciascuno 33.000 e più libri.

 

È questa una biblioteca possibile o appartiene solo a un universo di fantasia? Comunque anche un codice elaborato per una biblioteca casalinga permette queste variazioni, queste proiezioni e consente anche di pensare a biblioteche poligonali. Faccio questa premessa perché, obbligato dal gentile invito che ho ricevuto a riflettere su cosa si possa dire su una biblioteca, ho cercato di stabilire quali siano i fini certi o incerti di una biblioteca. Ho fatto una breve ispezione nelle sole biblioteche a cui avevo accesso, perché sono aperte anche nelle ore notturne, quella di Assurbanipal a Ninive, quella di Policrate a Samo, quella di Pisistrato ad Atene, quella di Alessandria che faceva già nel III secolo 400.000 volumi e poi nel I secolo, con quella del Serapeo, faceva 700.000 volumi, poi quella di Pergamo e quella Augusto (al tempo di Costantino c’erano 28 biblioteche a Roma). Poi ho una certa dimestichezza con alcune biblioteche benedettine, e ho cominciato a chiedermi quale sia la funzione di una biblioteca. Forse all’inizio, ai tempi di Assurbanipal o di Policrate era quella di raccogliere, per non lasciare in giro rotoli o volumi. In seguito credo abbia avuto la funzione di tesaurizzare: costavano, i rotoli. Quindi, in epoca benedettina, trascrivere: la biblioteca quasi come zona di passo, il libro arriva, viene trascritto, l’originale o la copia ripartono. Credo che in qualche epoca, forse già tra Augusto e Costantino, la funzione di una biblioteca fosse anche quella di far leggere, e quindi, più o meno, di attenersi al deliberato dell’Unesco che ho visto nel volume arrivatomi oggi, in cui si dice che uno dei fini della biblioteca è di permettere al pubblico di leggere i libri. Ma in seguito credo siano nate delle biblioteche la cui funzione era quella di non far leggere, di nascondere, di celare il libro. Naturalmente, queste biblioteche erano anche fatte per permettere di ritrovare. Noi siamo sempre stupiti dall’abilità degli umanisti del Quattrocento che ritrovano i manoscritti perduti. Dove li ritrovano? Li trovano in biblioteca. In biblioteche che in parte servivano per nascondere, ma servivano anche per fare ritrovare.

 

Di fronte a questa pluralità di fini di una biblioteca mi permetto adesso di elaborare un modello negativo, in 21 punti di cattiva biblioteca. Naturalmente è un modello fittizio tanto come quello della biblioteca poligonale. Ma come in tutti i modelli fittizi che, come tutte le caricature, nascono dalla aggiunzione di cervici equine su corpi umani con code di sirene e squame di serpente, credo che ciascuno di noi possa ritrovare in questo modello negativo i ricordi lontani di proprie avventure nelle più sperdute biblioteche e del nostro Paese e di altri Paesi. Una buona biblioteca, nel senso di una cattiva biblioteca (e cioè di un buon esempio del modello negativo che cerco di realizzare), dev’essere anzitutto un immenso cauchemar, deve essere totalmente incubatica e, in questo senso, la descrizione di Borges già va bene.

 

E poi, ho messo un requisito Z): idealmente l’utente non dovrebbe poter entrare in biblioteca; ammesso che ci entri, usufruendo in modo puntiglioso e antipatico di un diritto che gli è stato concesso in base ai principi dell’89, ma che però non è stato ancora assimilato dalla sensibilità collettiva, in ogni caso non deve, e non dovrà mai, tranne che i rapidi attraversamenti della sala di consultazione, entrare nei penetrali degli scaffali.

 

Esistono ancora biblioteche del genere? Questo lo lascio decidere a voi, anche perché devo confessare che, ossessionato da tenerissimi ricordi (la tesi di laurea alla Biblioteca Nazionale di Roma, quando esisteva ancora, con lampade verdi sul tavolo, o pomeriggi di grande tensione erotica alla Sainte Geneviève o alla Biblioteca della Sorbona) accompagnato da questi dolci ricordi della mia adolescenza, in età adulta frequento abbastanza poco le biblioteche, ma non per ragioni polemiche, ma perché quando sono all’Università il lavoro è troppo intenso, e in sede di seminario si chiede allo studente di andare a cercare il libro e fotocopiarlo; quando sono a Milano, e ci sono pochissimo, vengo solo alla Sormani perché c’è lo schedario unificato; e poi frequento molto le biblioteche all’estero, perché quando sono all’estero faccio il mestiere di essere una persona all’estero, quindi ho più tempo libero, ho le sere libere e di sera in molti Paesi si può andare in biblioteca. Allora, invece di disegnarvi l’utopia di una biblioteca perfetta, che non so quanto e come sia realizzabile, vi racconto la storia di due biblioteche su misura, due biblioteche che io amo e che, quando posso, cerco di frequentare. Con questo non voglio dire che siano le migliori del mondo o che non ce ne siano altre: sono quelle che per esempio l’ultimo anno ho frequentato con una certa regolarità, una per un mese, l’altra per tre mesi: sono la Sterling Library di Yale e la nuova biblioteca dell’Università di Toronto.

 

Molto diverse tra loro, almeno quanto il grattacielo Pirelli può esserlo da Sant’Ambrogio, proprio come architettura: la Sterling è un monastero neogotico, quella di Toronto è un capolavoro dell’architettura contemporanea; ci sono variazioni, ma cercherei di fare una fusione tra le due, per dire perché queste due biblioteche mi piacciono.

 

Sono aperte fino a mezzanotte, e anche di domenica, (la Sterling non apre la domenica mattina, ma poi apre da mezzogiorno a mezzanotte, chiude una sera al venerdì). Buoni indici a Toronto, che ha poi anche una serie di visori e di schedari computerizzati facilmente manovrabili. Invece alla Sterling gli indici sono ancora più all’antica, però c’è l’unificazione dell’autore e del soggetto, quindi su un certo argomento non si hanno solo le opere di Hobbes, ma anche le opere su Hobbes. La biblioteca contiene inoltre anche le indicazioni di quello che si trova nelle altre biblioteche della zona. Ma la cosa più bella di queste due biblioteche è che, almeno per una categoria di lettori, c’è l’accessibilità agli stacks, cioè non si domanda il libro, si passa davanti a un cerbero elettronico con un tesserino, dopo di che si prendono degli ascensori e si va nei penetrali. Non sempre se ne esce vivi, negli stacks della Sterling è facilissimo ad esempio commettere un delitto e nascondere il cadavere sotto alcuni scaffali di carte geografiche e verrà ritrovato decenni dopo. C’è ad esempio un’astuta confusione del piano e del mezzanino, in modo che uno non sa mai se è nel piano o se è nel mezzanino, quindi non trova più l’ascensore; le luci si accendono solo per volontà del visitatore, quindi se uno non trova la luce giusta può vagare a lungo nel buio; diversa quella di Toronto, tutto luminosissimo. Però lo studioso gira e guarda i libri negli scaffali, dopo di che li toglie dagli scaffali e può, a Toronto, andare in sale con bellissime poltrone dove si siede a leggere, a Yale un po’ meno, ma comunque li porta in giro all’interno della biblioteca , per eseguire fotocopie. Le macchine per fotocopie sono numerosissime, a Toronto esiste un ufficio che cambia i biglietti da dollaro canadese in monetine, in modo che ciascuno si avvicini alla propria macchina per fotocopie con chili di monetine e possa copiare anche libri di sette ottocento pagine: la pazienza degli altri utenti è infinita, stanno ad aspettare che chi occupa la macchina arrivi alla settecentesima pagina. Naturalmente si può portare anche il libro fuori per il prestito, le modalità del prestito sono di una rapidità infinita: dopo che si è girato liberamente per gli otto, quindici, diciotto piani degli stacks e si sono presi i libri che si desiderano, si scrive su un fogliettino il titolo del libro che si è preso, lo si dà ad un banco e si esce. Chi può entrare all’interno? Chi ha un tesserino, anche questo facilissimo da avere nel giro di un’ora o due, dove la credenziale è talora addirittura telefonica. A Yale per esempio non possono salire negli stacks gli studenti, ma solo gli studiosi, però c’è un’altra biblioteca per studenti che non contiene libri antichissimi, ma che ha lo stesso numero sufficiente di volumi, dove gli studenti hanno le stesse possibilità degli studiosi di prendere e posare i libri. Tutto questo a Yale si può fare usando un capitale di otto milioni di volumi. Naturalmente i manoscritti rari sono in un’altra biblioteca e un pochino meno accessibili. Ora, cos’è importante nel problema dell’accessibilità agli scaffali? È che uno dei malintesi che dominano la nozione di biblioteca è che si vada in biblioteca per cercare un libro di cui si conosce il titolo. In verità accade sovente di andare in biblioteca perché si vuole un libro di cui si conosce il titolo, ma la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l’esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi. Ora, è vero che questa scoperta può essere data sfogliando il catalogo, ma non c’è niente di più rivelativo e appassionante dell’esplorare degli scaffali che magari riuniscono tutti i libri di un certo argomento, cosa che intanto sul catalogo per autore non si sarebbe potuto scoprire, e trovare accanto al libro che si era andati a cercare un altro libro, che non si era andati a cercare, ma che si rivela come fondamentale. Cioè, la funzione ideale di una biblioteca è di essere un po’ come la bancarella del bouquiniste, qualcosa in cui si fanno delle trouvailles, e questa funzione può essere permessa solo dalla libera accessibilità ai corridoi degli scaffali.

 

Questo fa sì che in una biblioteca a misura d’uomo la sala meno frequentata sia poi quella di consultazione. A questo livello non sono neppure più necessarie molte sale di lettura, perché la facilità del prestito, della fotocopia e dell’asportazione dei libri, elimina in gran parte le soste nelle sale di lettura. Oppure funzionano come sale di lettura (per esempio a Yale) la zona di rifocillamento, il bar, lo spazio con le macchinette che scaldano anche i wurstel, dove si può scendere portandosi i libri presi in biblioteca, quindi continuando a lavorare intorno a un tavolo con un caffè e una brioche, anche fumando, esaminando i libri e decidendo se riportarli negli scaffali o chiederli in prestito, senza alcun controllo. A Yale il controllo è fatto all’uscita da un impiegato che, con aria piuttosto distratta, guarda dentro la borsa che si porta fuori; a Toronto c’è la magnetizzazione completa delle coste dei libri e il giovane studente che registra il libro preso a prestito lo passa su una macchinetta gli toglie la magnetizzazione, poi si passa sotto una porta elettronica tipo aeroporto e se qualcuno ha nascosto nel taschino il volume 108 della Patrologia Latina comincia a suonare un campanello e si scopre il furto. Naturalmente c’è il problema, in una biblioteca del genere, dell’estrema mobilità dei volumi e della difficoltà quindi o di trovare il volume che si cerca o quello consultato il giorno prima. In luogo delle sale generali di lettura, ci sono i boxes. Lo studioso chiede un box dove tiene i suoi volumi e dove va a lavorare quando vuole. Tuttavia in alcune di queste biblioteche, quando non si trova il volume che si vuole, si può sapere nel giro di pochi minuti chi è che l’aveva preso a prestito, e rintracciarlo telefonicamente. Questo fa sì che questo tipo di biblioteca abbia pochissimi guardiani e moltissimi impiegati, e ha un tipo di funzionario a metà tra il bibliotecario di concetto e l’inserviente (di solito sono studenti a pieno tempo o a part-time). In una biblioteca in cui tutti circolano e tirano fuori i libri, ci sono continuamente dei libri che rimangono in giro, che non vanno più a posto bene negli scaffali, allora questi studenti girano con dei carrelli enormi e vanno a riportare, ricontrollano che le segnature siano più o meno in ordine (non lo sono mai, questo aumenta l’avventura della ricerca). A Toronto mi è successo di non trovare quasi tutti i volumi della Patrologia del Migne; questa distruzione del concetto di consultazione farebbe impazzire un bibliotecario sensato, ma così è.

 

Questo tipo di biblioteca è a misura mia, posso decidere di passarci una giornata in santa letizia: leggo i giornali, porto giù dei libri al bar, poi vado a cercarne degli altri, faccio delle scoperte, ero entrato lì per occuparmi poniamo di empirismo inglese e invece comincio a inseguire i commentatori di Aristotele, mi sbaglio di piano, entro in una zona, in cui non sospettavo di entrare, di medicina, ma poi improvvisamente trovo delle opere su Galeno, quindi con riferimenti filosofici. La biblioteca diventa in questo senso un’avventura.

 

Quali sono tuttavia gli inconvenienti di questo tipo di biblioteca? Sono furti e rovinamenti, ovviamente: per quanti controlli elettronici ci siano, è molto più facile, credo, rubare libri in questo tipo di biblioteca che non nel nostro. Benché proprio l’altro giorno mi raccontava l’assessore di un Comune di un’insigne biblioteca italiana che hanno scoperto un tale che da venticinque anni stava portandosi a casa i più belli incunaboli, perché lui aveva volumi con timbri di biblioteche remote, entrava dentro con questi, poi li svuotava, staccava la rilegatura dal volume da rubare e metteva i fogli dentro la vecchia rilegatura, poi usciva, e pare che in venticinque anni si sia fatta una biblioteca meravigliosa. I furti sono possibili evidentemente dappertutto, ma credo che il criterio di una biblioteca chiamiamola aperta, a circolazione libera, sia che il furto si ripara comprando un’altra copia del libro, anche se è in antiquariato. È un criterio miliardario, però è un criterio. La scelta essendo se permettere di leggere i libri o no, quando un libro viene rubato o rovinato se ne comprerà un altro. Ovviamente i Manuzio staranno nella libreria dei manoscritti e saranno meglio difesi.

 

L’altro inconveniente di questo tipo di biblioteca è che essa consente, avvia, incoraggia, la xerociviltà. La xerociviltà, che è la civiltà della fotocopia, porta con sé, insieme a tutte le comodità che la fotocopia comporta, una serie di gravi inconvenienti per il mondo editoriale, anche dal punto di vista legale. La xerociviltà comporta innanzitutto il crollo del concetto di diritto d’autore. È pur vero che in queste biblioteche, in cui vi sono decine e decine di macchine per fotocopie, se uno va al servizio apposito dove si spende meno e si lascia giù il libro per averlo fotocopiato, il giorno in cui si chiede di avere un libro completo fotocopiato, il bibliotecario dice che non è possibile perché è contro la legge sui diritti d’autore. Ma se si ha un numero sufficiente di monetine e si fotocopia il libro da soli, nessuno dice niente. Inoltre si può prendere il libro a prestito, e lo si porta fuori in certe cooperative studentesche che fanno fotocopie su carta coi tre buchi in modo da poterlo poi inserire in raccoglitori. Anche in queste cooperative talora vi dicono che non vi fotocopiano un libro intero: io ho avuto questo problema con dei miei studenti.

 

«Dobbiamo far fare trenta copie di questo libro – dice – ma loro si rifiutano» (di solito, altre volte lo fanno, dipende dalla disinvoltura della cooperativa) «loro si rifiutano di fotocopiarlo perché c’è scritto che il libro è sotto diritti».

 

«Benissimo – dico – fate fare una fotocopia, poi riportate il libro in biblioteca, poi richiedete di fare ventinove copie di una fotocopia: una fotocopia non è sotto i diritti».

 

«Non ci avevamo pensato». Infatti ventinove copie di una fotocopia chiunque le fa.

 

Questo ha ormai influito sulla politica delle case editrici. Tutte le case editrici di tipo scientifico ormai pubblicano i libri sapendo che saranno fotocopiati. Quindi i libri vengono pubblicati in non più di mille, duemila copie, costano centocinquanta dollari, saranno comprati dalle biblioteche, dopo di che gli altri li fotocopieranno. Le grandi case editrici olandesi di linguistica, filosofia, fisica nucleare, ormai fanno un libro di centocinquanta pagine che costa cinquanta, sessanta dollari, un libro di trecento pagine può costare duecento dollari, viene venduto al circolo delle grandi biblioteche, dopo di che l’editore sa per certo che tutti gli studenti e gli studiosi lavoreranno soltanto su fotocopie. Quindi guai allo studioso che volesse avere il libro per sé, perché non può sostenere la spesa. Quindi, crescita enorme dei prezzi, diminuzione della diffusione. Quale garanzia ha allora l’editore che il suo libro in futuro venga comperato e non fotocopiato? Bisogna che il prezzo del libro sia inferiore a quello della fotocopia. Siccome si può fotocopiare a spazio ridotto due pagine su un solo foglio e ormai, fotocopiando su fogli a tre buchi, si può immediatamente avere il libro rilegato, il problema dell’editore è quindi di stampare come vendibili, non alle sole biblioteche ma al pubblico, libri di bassissimo costo, quindi su carta molto cattiva che, secondo gli studi fatti negli ultimi anni, è destinata a friabilizzarsi e a dissolversi entro alcune decine d’anni (questo è già cominciato: I Gallimard del ’50 si sbriciolano quando li si sfoglia oggi, sembrano pane azzimo). Il che porta ad un altro problema: ad una rigorosa selezione fatta dall’alto da coloro che sopravviveranno e coloro che finiranno nel dimenticatoio, cioè quelli che pubblicheranno nei libri dei grandi editori internazionali che mirano solo al circuito delle biblioteche e che costano duecento o trecento dollari stamperanno su carta che ha possibilità di sopravvivere all’interno delle biblioteche e di moltiplicarsi in fotocopie, quelli che pubblicheranno solo da editori che vendono al grosso pubblico, tendendo quindi all’edizione economica, sono destinati a scomparire nella memoria dei posteri. Non sappiamo con esattezza se sarà un bene o se sarà un male, tanto più che molte volte pubblicazioni fatte a trecento dollari dai grandi editori per il circuito delle biblioteche sono pubblicazioni a spese dell’autore, dello studioso, della foundation che lo sostiene, il che non è molte volte garanzia di degnità e di valore di colui che pubblica. Quindi ci avviciniamo, attraverso la xerociviltà, a un futuro in cui gli editori pubblicheranno quasi solamente per le biblioteche e questo è un fatto di cui tenere conto. In più, sul piano personale, nascerà la nevrosi da fotocopia. Del resto la fotocopia è uno strumento di estrema utilità, ma molte volte costituisce anche un alibi intellettuale: cioè uno, uscendo dalla biblioteca con un fascio di fotocopie, ha la certezza che non potrà di solito mai leggerle tutte, non potrà neanche poi ritrovarle perché incominciano a confondersi tra di loro, ma ha la sensazione di essersi impadronito del contenuto di quei libri. Prima della xerociviltà costui si faceva lunghe schede a mano in queste enormi sale di consultazione e qualcosa gli rimaneva in testa. Con la nevrosi da fotocopia c’è il rischio che si perdano giornate in biblioteca a fotocopiare libri che poi non vengono letti. Sto mostrando gli effetti negativi di quella biblioteca a misura d’uomo, in cui tuttavia sono contento di vivere quando mi è possibile, ma il peggio avverrà quando una civiltà dei visori e delle microfiches avrà soppiantato totalmente quella del libro consultabile: forse rimpiangeremo le biblioteche difese da cerberi che hanno in gran dispetto l’utente e cercano di non dargli il libro, ma nelle quali almeno una volta al giorno si poteva mettere le mani sull’oggetto rilegato. Quindi dobbiamo considerare anche questo scenario apocalittico per riuscire a bilanciare i pro e i contro di una possibile biblioteca a misura d’uomo. Io credo che man mano la biblioteca si avvierà ad essere a misura d’uomo, ma per essere a misura d’uomo anche a misura di macchina, dalla fotocopiatrice al visore, aumenteranno i doveri per la scuola, per gli enti comunali eccetera, di educare i giovani ed anche gli adulti all’uso della biblioteca. Usare la biblioteca è un’arte talora sottile, non basta che il professore o il maestro a scuola dica: «Siccome fate questa ricerca andate in biblioteca a cercare il libro». Bisogna insegnare ai ragazzi come si usa la biblioteca, come si usa un visore per microfiches, come si usa un catalogo, come si combatte con i responsabili della biblioteca se non fanno il loro dovere, come si collabora con i responsabili della biblioteca. Al limite vorrei dire se la biblioteca non dovesse essere potenzialmente aperta a tutti bisognerebbe istituire, come per la patente automobilistica, dei corsi, corsi di educazione al rispetto del libro, e al modo di consultare il libro. Un’arte molto sottile, ma a cui bisognerà richiamare appunto la scuola e chi è preposto all’educazione permanente degli adulti, perché, lo sappiamo la biblioteca è un affare della scuola, del comune, dello stato. È un problema di civiltà e noi non intuiamo quanto ancora lo strumento biblioteca sia una cosa ignota ai più. Chi vive nell’università di massa, in cui possono convivere giovani studiosi dalle mille astuzie e capacità con altri giovani che arrivano per la prima volta a sfiorare il mondo della cultura, si può trovare di fronte a degli episodi incredibili. Cito la storia dello studente che mi dice: «Non posso consultare questo libro alla biblioteca di Bologna, perché vivo a Modena». «Bene – gli dico – a Modena ci sono delle biblioteche». «No, – dice – non ce ne sono». Non ne aveva mai sentito parlare.

 

Una laureanda mi viene a dire: «Non ho potuto trovare le Ricerche Logiche di Husserl, nelle biblioteche non ci sono». Dico: «Quali biblioteche?» Dice: «Qui, a Bologna, e poi anche nella mia città ho guardato, non c’è Husserl». Dico: «Mi par molto strano che nella biblioteca non ci siano le traduzione italiane di Husserl». Dice: «Forse ci sono ma le hanno prese tutte a prestito». Improvvisamente tutti leggono avidamente Husserl. Bisognerà provvedere. Forse sarà utile tenere – di Husserl – almeno tre copie. Ci dev’essere qualcosa di marcio nel regno di Danimarca se questa persona non trova Husserl e non le è stato mai spiegato che può andare forse da qualcuno all’interno della biblioteca a chiedere ragione di questa mancanza. C’è una distonia, una mancanza di intesa tra il cittadino e la biblioteca.

 

Ecco il problema della educazione.

 

E poi il problema finale; bisogna scegliere se si vuole proteggere i libri o farli leggere. Non dico che bisogna scegliere di farli leggere senza proteggerli, ma non bisogna neanche scegliere di proteggerli senza farli leggere. E non dico neanche che bisogna trovare una via di mezzo. Bisogna che uno dei due ideali prevalga, poi si cercherà di fare i conti con la realtà per difendere l’ideale secondario. Se l’ideale è far leggere il libro, bisogna cercare di proteggerlo il più possibile, ma sapendo i rischi che si corrono. Se l’ideale è proteggerlo, si dovrà cercare di lasciarlo leggere, ma sapendo i rischi che si corrono. In questo senso il problema di una biblioteca non è diverso da quello di una libreria. Ci sono ormai due tipi di librerie. Quelle molto serie, ancora con scaffali in legno, dove appena entrati si è avvicinati da un signore che dice: «Cosa desidera?», dopo di che ci si intimidisce e si esce: in queste librerie si rubano pochi libri. Ma se ne acquistano meno. Poi ci sono le librerie a supermarket, con scaffalatura di plastica, dove, specie i giovani, girano, guardano, si informano su quel che esce, e qui si rubano moltissimi libri, benché si mettano i controlli elettronici. Potete sorprendere lo studente che dice: «Ah, questo libro è interessante, domani vado a rubarlo». Poi si passano informazioni tra di loro, per esempio: «Guarda che alla libreria Feltrinelli, se ti beccano menano ».

 

«Ah, bÈ, allora vado a rubare alla Marzocco dove adesso hanno aperto un nuovo supermarket». Eppure chi organizza le reti di librerie sa che, a un certo punto, la libreria ad alto tasso di furti è però anche quella che vende di più. Si rubano molte più cose in un supermarket che in una drogheria, ma il supermarket fa parte di una grande catena capitalistica, mentre la drogheria è piccolo commercio con una dichiarazione dei redditi molto ridotta.

 

Ora, se trasformiamo questi, che sono problemi di reddito economico, in quelli di reddito culturale, di costi e di vantaggi sociali, lo stesso problema si pone quindi anche per le biblioteche: correre maggiori rischi sulla preservazione dei libri, ma avere tutti i vantaggi sociali di una loro più ampia circolazione. Cioè se la biblioteca è, come vuole Borges, un modello dell’Universo, cerchiamo di trasformarla in un universo a misura d’uomo, e, ricordo, a misura d’uomo vuol dire anche gaio, anche con la possibilità del cappuccino, anche con la possibilità per i due studenti in un pomeriggio di sedersi sul divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt nella biblioteca, mentre si prendono o rimettono negli scaffali alcuni libri di interesse scientifico, cioè una biblioteca in cui faccia venire voglia di andarci e si trasformi poi gradatamente in una grande macchina per il tempo libero, com’è il Museum of Modern Art in cui si va al cinema, si va a passeggiare nel giardino, si vanno a guardare le statue e a mangiare un pasto completo. So che l’Unesco è d’accordo con me: «La biblioteca… deve essere di facile accesso e le sue porte devono essere spalancate a tutti i membri della comunità che potranno liberamente usarne senza distinzioni di razza, colore, nazionalità, età, sesso, religione, lingua, stato civile e livello culturale». Un’idea rivoluzionaria. E l’accenno al livello culturale postula anche un’azione di educazione e di consulenza e di preparazione. E poi l’altra cosa: «L’edificio che ospita la biblioteca pubblica dev’essere centrale, facilmente accessibile anche agli invalidi ed aperto ad orari comodi per tutti. L’edificio ed il suo arredamento devono essere di aspetto gradevole, comodi ed accoglienti; ed è essenziale che i lettori possano accedere direttamente agli scaffali».

 

Riusciremo a trasformare l’utopia in realtà?